Un’immagine, un racconto

“Un libro inizia con un’immagine. Vedo un’immagine con gli
occhi della mente e poi cerco di raccontare ciò che vedo”

(Orhan Pamuk – Istanbul: ricordi di una città)

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Rita Dell’arso, agosto 2025

L’ultimo punto

Marco, tennista di successo, con una grande carriera alle sue spalle, avrebbe voluto ancora giocare tanto, ma il tempo si sa è un tiranno e, arrivato a 43 anni, il fisico cominciava a rallentarlo nei suoi movimenti. Marco negli ultimi tempi aveva pensato spesso al momento di chiudere con il tennis, di dare l’addio a quello sport che tanto aveva amato e tanto gli aveva dato di onori, fama e denaro.
Ma non si sentiva ancora sicuro, quello sport era stato tutta la sua vita.
Aveva iniziato a giocare a tennis da bambino, al Circolo Tennis della sua città natale.
I suoi genitori lo avevano iscritto a un corso di tennis, finita la terza elementare.
In un’estate calda e pesante aveva iniziato ad usare le racchette, i gomiti e a scoprire quanto c’era di bello in questo sport. Gli piaceva di questo sport studiare l’avversario e metterlo in difficoltà. Presto questa sua dote di studiare l’avversario e saper usare la strategia per sconfiggerlo, insieme al talento, si erano rivelate caratteristiche di successo.
E pian piano aveva calcato i campi più importanti a livello internazionale.
Lui, figlio di due semplici impiegati, ora era un tennista famoso e di successo.
Ed eccolo ora a Roma, agli Internazionali di tennis. L’avversario, un ragazzo giovane, promettente e che aveva dalla sua proprio il fatto di essere giovane, pieno di vigore.
Marco era consapevole dei suoi 43 anni, ma contava molto ancora nella sua abilità nonostante i muscoli negli ultimi tempi iniziassero a rallentare la loro elasticità.
La partita si mostrò infatti subito ardua.
Erano due ore che giocavano e ora erano all’ultimo set, quello decisivo. Marco, accorgendosi della difficoltà e della tensione, iniziò a pensare che forse questa sarebbe stata la sua ultima partita e non avrebbe voluta perderla. Se proprio doveva abbandonare il tennis, avrebbe voluto farlo da vincente.
Si arrivò al momento decisivo, erano le ultime racchettate, quelle decisive.
A un certo punto il rumore del pubblico si era fatto ovattato, come se un velo di silenzio fosse sceso sull’arena.
Marco si era tuffato in avanti, sentendo l’odore acre della gomma del campo e il sudore che gli scivolava negli occhi.
La palla, un lampo giallo contro il buio degli spalti, stava per toccare terra.
E in quell’istante Marco capì che non era solo un match; era l’ultima partita della sua carriera, la chiave per dimostrare che il ragazzo di provincia, cresciuto col rumore delle corde di una racchetta sfilacciata, poteva ancora battere i futuri giganti del tennis. 
Colpì. Il colpo partì basso, rasente alla rete, un azzardo. Il destino del punto – e forse della sua storia – stava già volando dall’altra parte del campo.
Aveva vinto! Ce l’aveva fatta, aveva vinto contro quel ragazzo in cui aveva rivisto se stesso.  Quel ragazzo sconfitto apprezzò la sua vittoria, umilmente si inchinò metaforicamente a lui, campione di esperienza e talento.
Ma fu proprio con questo ragazzo, che lo aveva messo così a dura prova in questa partita, che Marco decise di chiudere con il tennis.
Era ora di dedicarsi a sua moglie e a suo figlio, che per via dei tanti suoi impegni tennistici, vedeva pochissimo. Era ora di stare vicino anche ai suoi genitori anziani, che tanto avevano fatto per lui.
E quando il giornalista dopo la premiazione lo intervistò Marco, disse. “Sono contento di aver finito la mia carriera tennistica, oggi e con questa vittoria. Questa è stata l’ultima mia partita, l’ultimo punto. Ora voglio stare vicino a mia moglie, a mio figlio Giacomo che però non ama il tennis, ma il calcio. Voglio stare vicino ai miei genitori anziani e forse allenerò giovani promesse del tennis. Ma ora mi godo questo trionfo sapendo che ho di fronte a me un nuovo inizio di vita.”
Sua moglie Cristina, dagli spalti, versò una lacrima di emozione. Ma anche i suoi genitori, guardandolo dalla tv scoppiarono a piangere di gioia per quel figlio.
Il più contento di tutti? Giacomo: “Finalmente papà verrà a vedermi alle partite e non sarò io ad assistere alle sue” disse sorridendo.

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Rosaria Russo, agosto 2025

Il coraggio di alzarsi

L’aria frizzante del mattino mi dà un po’ di energia, quella che spesso mi è mancata ultimamente. Almeno, per un attimo, non mi crogiolo in pensieri depressivi.
Non mi ero mai accorta di questo parco, anche se passo spesso in questa zona. Il cancello è aperto, entro. Tanto sono in vacanza, nessuno mi aspetta. È un bel posto: alberi, campetti da calcio… mi sembra un’area privata, ma non ci sono divieti.
Una panchina attira la mia attenzione. Decido di sedermi, godendomi il sole che comincia a inondare un’altra giornata afosa.
Il rumore di un palleggiamento cadenzato cattura la mia attenzione. Un campo da tennis sintetico, due giocatori si contendono la palla. Mi ritrovo a fissarli, quel gioco mi ha sempre attratto, fin da bambina: la polvere che si alza a ogni passo, il suono della racchetta, il sudore sulla fronte. Ma uno dei due, non so perché, attira il mio sguardo più dell’altro.
È così concentrato, mai una smorfia. L’altro sembra stia combattendo la partita della vita, è troppo agitato per i miei gusti. Il tennista alla mia destra non mostra emozioni. È pura concentrazione, pura azione. L’altro, invece, si sta lasciando sopraffare, commette un errore dopo l’altro.
La partita è a un punto cruciale. L’uomo imperturbabile si prepara a servire, con un movimento lento e calcolato.
La palla vola, ma invece di finire nel campo avversario, finisce nella rete. Che errore inaspettato!
Il tennista non si scompone, si china per raccogliere la palla. In quell’attimo, la sua immagine si fonde con un’altra. Rivedo me stessa, anni fa, in un momento delicato della mia vita, in ginocchio a raccogliere i pezzi di un sogno che si era infranto, proprio come quella palla finita nella rete. Una caduta.
Lui si rialza con calma, si spolvera i pantaloncini, come se nulla fosse accaduto. Nessuna rabbia, nessuna frustrazione, solo l’accettazione dell’errore e la volontà di ricominciare.
A quel punto, una consapevolezza mi assale. Mi rendo conto che il mio fallimento non era stato il fallimento del sogno, ma il non essermi più rialzata.
Il tennista si prepara a un nuovo servizio. È il punto decisivo. Il silenzio è palpabile. Sento il cuore battere nel petto, come se quella palla non decidesse solo l’esito della partita, ma anche il mio. Mentre la racchetta colpisce la palla con un suono netto, il tennista alza lo sguardo. I nostri occhi si incrociano.
Per un istante, mi sento vista. Non è uno sguardo casuale, ma un messaggio muto che attraversa la distanza tra noi. Mi sembra di sentire le sue parole senza suono: non è la caduta a definirti, ma il coraggio di rialzarti.
Quel ragazzo non saprà mai quanto è stato importante per me, ma sento che ora posso… ora è il momento di rialzarmi.”

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Giuseppe Pugliese, agosto 2025

Così così

Il primo a volte grugnisce.
Quasi come un maiale.
L’altro, invece, più sommessamente ogni tanto emette un “Ah!”
Da sforzo intenso. Di sofferenza vera.
La pallina nel frattempo va di qua e di là.
Alternativamente.
E poi a un certo punto casca.
E rotola lemme lemme fin sotto la rete.

“0-15!”

Urla il primo, mentre l’altro, irritato, va a raccattarla.
Non c’è arbitro, non ci sono ragazzini pronti a rimandarle in campo.
Non sono mica due professionisti.
A guardarli ci sono solo io.
Che non capisco.
Sono amici lo so.
Li ho visti tante volte insieme al bar del circolo a prendere l’aperitivo o a mangiare la pizza.
Ridono, scherzano con tutti, si danno pacche sulle spalle e sfottono gli altri giocatori.
Ma quando giocano…
Sembrano due invasati.
Ogni colpo appena appena dubbio litigano.
Lo sanno tutti ormai e nessuno si presta più bonariamente a fare da arbitro, perché a turno gli si rivoltano contro. Minacciosi.
E’ una evidente questione personale.
Ma perché? 
Quale profonda rivalità a noi ignota serpeggia tra loro?
Nel frattempo battuta e risposta in rete.

“15 pari!”

E il match prosegue.
Sembrano due ragazzini inferociti.
Incarogniti il giusto l’un con l’altro.
Dovreste vedere a quasi cinquant’anni l’agilità che sfoderano pur di colpire quella pallina.
Ma io li ho visti giocare anche contro altri in assenza del loro partner preferito.
E non si comportano così.
Sono molto più corretti.
Quasi gentili nel concedere anche punti tutti da verificare.
A volte vincono, a volte perdono, ma hanno sempre una reazione composta.
Da vero sportivo.
Ora battuta e ace.

“30-15!” 

Tra di loro no. Lottano sino allo spasimo.
Quando posso mi fermo volentieri a guardarli.
Cerco di comprendere il motivo di quel loro comportamento spropositato.
Anche se poi alla fine si avvicinano alla rete e si danno sempre platealmente la mano.

“Net! Due palle!”

Loro non gradiscono. E’ evidente.
Mi guardano in cagnesco e ogni cambio campo controllano se sono ancora al mio posto.
Ma non possono cacciarmi.
E io non mi muovo.
So di innervosirli.
Ma dovranno sopportarmi. Si arrangeranno.
Giocano sempre sullo stesso campo: il sette.
E’ quello giusto un po’ più riparato da sguardi indesiderati. Ma non abbastanza.
Perlomeno d’estate, quando non c’è il pallone a proteggerli.
Di tanto in tanto si avvicina qualche socio nuovo dell’ambiente e magari si ferma a fare qualche osservazione sul loro gioco a voce alta.
Vi assicuro che poi non ricapita.
E leva loro anche il saluto.
Bello scambio ora e poi…

“40-15!”

Qualche vecchio socio invece, di quelli che li conoscono bene da una vita, si presta anche a qualche incontro di doppio.
Ma anche in quel caso praticamente giocano solo l’uno contro l’altro.
Ed in definitiva è sempre la stessa partita. Lo definirei quasi un singolo allargato.
Tuttavia in quelle rare partite a quattro non accusano mai ineducatamente i loro occasionali compagni di gioco in caso di errore. E si prendono anche le proprie colpe quando sbagliano.
Ma non hanno mai avuto dei compagni assidui, perché dopo un po’ tutti capiscono di non contare niente, e allora cercano altra compagnia, un po’ più partecipe anche della loro, di sorte.  

“OUT!”

Attenzione. Siamo ad un momento importante è la prima palla match.
Anzi la seconda perché la prima è stata or ora chiamata fuori.
Era stata impressa troppa forza. L’errore è evidente e non c’è protesta.
Ora è buona. Ed è un altro bello scambio. Poi c’è una volée e siamo…

“40-30!”

Quello alla battuta è in testa e vuole chiudere la partita a tutti i costi e la tensione sul suo volto è evidente.
Si concentra e scaglia forte la pallina.
E’ un bel colpo ma l’altro, seppure a fatica, ribatte. Non ci sta a perdere.
Qualche scambio d’attesa e poi un bello smash.
Vanificato da un grande rincorsa ed un bel recupero.
Ancora un colpo violento e poi…
La pallina tocca il nastro e ricade, imprendibile, sul campo.
“Ma che culo!” urla il perdente. 
“Ma dai che lo sai che avrei vinto lo stesso…”  grida l’altro di rimando.
Senza tanta enfasi però.
Perché per via del nastro ha vinto, è vero.
Ma non è più una vittoria bella da rivendicare a pieni polmoni.
Stavolta è solo una vittoria così e così.

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Silvana D’Angelo, agosto 2025

Girone dantesco

Se Dante avesse ambientato la sua sedicente Divina creatura nel XX secolo avrebbe
senz’altro scaraventato quelli che (come me) non hanno mai voluto impugnare una
racchetta da tennis fra gli Accidiosi. Messi lì, risucchiati dal fango, incapaci di parlare e
vedere, emettendo sospiri che fanno ribollire la superficie melmosa.
Sono cresciuta in un’epoca in cui il tennis era uno sport da fichetti, di chi si poteva
permettere una buona racchetta, un numero infinito di palline che andavano a infrattarsi in posti impervi, il noleggio di un campo e all’inizio pure di un costoso maestro individuale in un selettivo circolo. Erano così snob da soffrire di cervicale (forse per evitare la puzza che avevano sotto il naso); altrimenti non si spiega perché sentissero il bisogno, all’epoca, di tirarsi su lungo l’aristocratico collo il colletto della prestigiosa Lacoste appositamente creata per fare pendant col calzoncino di gabardine bianco o col vezzoso gonnellino, sempre bianco, a pieghe.
Ci sarei andata dritta dritta nella palude dei dannati, per non dover affrontare l’avversario (sic!) che da distanza infinita mi avrebbe preso a bersaglio e con rabbia mi avrebbe lanciato piccole palle durissime ad altissima velocità; oppure quando sarebbe stato così perfido da mandarle al lato opposto al mio, per non farmele prendere. E non ho mai capito perché io avrei dovuto giocarmi una caviglia per rispondere alla sua cattiveria.
E poi quella racchetta così pesante, che credeva di prolungare il mio braccio migliore,
come la chela di un astice, per renderlo più micidiale.
Ma che ti ho fatto per essere così bersagliato da te?
Stavo tanto bene al parco a leggere un bel libro.
“Signora, la ragazza se ne sta sempre per conto suo, non socializza. Dovrebbe praticare
uno sport per superare i suoi limiti, la sua solitudine, confrontarsi. Il tennis è uno sport
completo: mette in moto tutti i muscoli e stimola il coordinamento motorio.
Altro che stimolazione! A casa mi hanno bollato come “storta”, di testa ma anche di
schiena (secca secca, più alta dei coetanei, con due tette come meloni già a 12 anni; che
vuoi fare se non accartocciarti su te stessa, nasconderti alla vista?).
Per fortuna poi c’è stata la New Age, lo yoga, il Tai Chi. Della serie “me la vedo da me, coi
miei tempi e non devo dimostrare niente a nessuno”. Un coordinamento corpo-anima, il
raggiungimento di una serenità nella realtà.
Come disse il comico: “Meditate gente…Meditate…”
“Perché le persone serene sono belle. Da loro non c’è mai da guardarsi le spalle, ché chi
sta bene con sé, non fa mai male agli altri”. (cit. dal web)

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Caterina Traina, agosto 2025

Una partita mancata

La folla stava lì immobile, col fiato sospeso, aspettando la mossa del campione. Teso e concentrato, stringendo la racchetta, si apprestava a fare un tiro spettacolare che avrebbe sorpreso l’avversario. Era l’ultimo set e mancava poco alla vittoria. Si sentiva vincente e sicuro di sé. Ma quello scivolone non ci voleva. Una brutta storta alla caviglia e fu costretto ad abbandonare la partita.
Un finale inaspettato. L’applauso del pubblico, però, gli riempì il cuore.
Si ripromise di tornare nuovamente a sfidare l’avversario e questa volta avrebbe vinto.

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