Daisy
Giuseppe Pugliese, agosto 2025

Vi ho mai parlato di Daisy?
No, non credo di averlo fatto, di certo per estremo riserbo.
Perché ne ho un ricordo così tenero da volerlo custodire intatto nel mio cuore.
Poi oggi ho rinvenuto una sua foto e allora…
E’ una di quelle storie adolescenziali pulite, nessun errore da giustificare, nessun retroscena da nascondere.
Era venuta a trascorrere le vacanze dai nonni qui in Italia: banale vero?
Arrivavano in tre, naturalmente accompagnati da mamma e papà, e ci restavano circa tre settimane. Un tempo sufficiente per ambientarsi e stringere qualche amicizia, rafforzata poi dal loro costante ritorno nel prosieguo degli anni.
Venivano principalmente a trovare la nonna, madre di Giovanni, loro padre e ormai Joe per tutti, nonché le numerose zie sempre più anziane.
Ad accoglierli trovavano noi, l’insieme dei ragazzi dei cortili dei dintorni, uniti tutti dalla scarsa differenza di età esistente e dalla voglia di correre, sudare e stordirsi per tutta l’estate.
In realtà era Lewis che avrebbe potuto giocare con noi a pieno titolo: maschio, stessa età e fisicamente a posto. Però lui era sempre un po’ refrattario a farsi coinvolgere e spesso si limitava a guardarci. Vabbè che un limite grosso ce lo aveva. Non sapeva giocare a calcio. Gli piaceva il football ma americano come lui e a noi sto sport invece proprio non ci convinceva.
Daisy invece inizialmente se ne era stata sulle sue, ma poi dalle occhiate che ci rivolgeva avevo capito che avrebbe giocato volentieri con noi sebbene tutti maschi. Non tanto a pallone, ma sembrava pronta a partecipare a tutte le altre avventure che ci inventavamo di giorno in giorno.
Del resto eravamo ancora nell’età in cui il sesso non contava veramente niente e io, dato che i nostri rispettivi genitori si conoscevano bene e si cenava pure insieme talvolta, avevo con loro una certa familiarità. Così un pomeriggio mi feci coraggio e la invitai a giocare a nascondino. “Yeah!” urlò e da quel momento in avanti la prima ad arrampicarsi per prendere le nocciole o le meaograne era sempre lei, pronta anzi prontissima a giocare a ruba bandiera o acchiapparello e persino a palla avvelenata.
Nel corso degli anni mi accorsi di attendere con ansia e con piacere il loro arrivo. O forse, più onestamente, solamente il suo.
Non che ci fosse niente di particolare tra noi due, al massimo andavamo da soli a dar da mangiare ai polli e ai conigli o ad accarezzare i numerosi micini che le gatte del giardino partorivano a profusione.
C’era però nell’aria una strana intimità, qualcosa che ci portava ad avere particolare attenzione l’uno all’altro.
Poi tra il mio inglese e il suo italiano non è che ci potessimo permettere chissà quali conversazioni, ma stavamo bene insieme.
Va da sé che nel giro di 4/5 anni lei divenne una bella ragazza e perse progressivamente interesse a stare con noi.
Poi un anno Joe arrivò con la sola Charlotte (la terza e più piccola figlia) al seguito.
I ragazzi stavano diventando grandi, ci disse, e avevano ormai i loro giri, altri interessi, e benché sinceramente affezionati alla nonna preferivano rimanere in America con la madre anziché trascorrere giorni sempre più radi e ridotti qui in Italia.
E fu proprio la scomparsa della nonna che li riportò infine tutti qui.
Un evento certo non felice, ma neppure del tutto inaspettato, dato che gli acciacchi della stessa nel corso degli anni si erano via via intensificati.
Così dopo la cerimonia funebre ci ritrovammo a passeggiare insieme per l’ultima volta nel giardino, quel posto che da piccoli ci era sembrato grande e magico e che manteneva ancora integro buona parte del suo fascino.
Facemmo il nostro solito giro, riuscendo però a chiacchierare sul serio stavolta, grazie al mio inglese decisamente migliorato.
E per finire ci dividemmo un’arancia dolce, raro e prezioso frutto fuori stagione.
Ci promettemmo di scambiarci lettere e telefonate e di rimanere sempre in contatto.
“Have a good luck” le augurai infine nell’abbracciarla. “Be happy” concluse lei nel ricambiare forte la mia stretta.
Va da sé che in breve tempo ci siamo persi di vista.
Ho avuto qualche sua notizia per interposta persona, ma non ci siamo più incontrati.
Tuttavia ogni tanto ci ripenso e me lo domando: chi sa se sono stato davvero felice nella mia vita.
Probabilmente a volte sì e a volte no.
Ma se lo sono stato è difficile che me ne sia reso completamente conto lì per lì, mentre li vivevo quegli attimi di sfolgorante felicità.
Ma più spesso ancora, di sicuro, non l’ho mica capito…
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