Frammenti (di vita). Prima del racconto
“Scrivere è un modo di parlare senza essere interrotti”
(Jules Renard)


Qualche anno fa mentre tornavo a casa in autobus mi sono accorto di alcune ragazze che scarabocchiavano sul retro dei sedili. Non volendo intervenire io, un maschio straniero, ho aspettato per lasciare spazio ad un italiano. Dopo qualche fermata non reggevo più l’attesa e sono andato a dire a loro, in un italiano formale ma gentile, di smettere. Due si sono messe a cancellare i segni con dei fazzoletti di carta ma la terza, nel tentativo di coprire il suo imbarazzo, ha contrattaccato. “Lei” mi diceva con voce altezzosa, “non è italiano. Che diritto ha di dire a me, un’italiana nel mio paese, come devo comportarmi?” Lì per lì la sua risposta mi ha spiazzato. Ero a disagio anche perché essendo un uomo non volevo dare l’impressione di importunare una giovane donna.
Per fortuna, un’altra donna italiana mi ha salvato. Aveva seguito il nostro scambio con crescente irritazione ad un certo punto si è presentata davanti alla giovane teppista e con un italiano tanto “nativo” quanto poco gentile l’ha quasi ridotta in lacrime.
L’essere un cittadino di nascita vuol dire che uno è speciale e che ha certi diritti innati? In fondo, coloro che sono nati “nobili” guarderanno sempre con disprezzo quelli che hanno acquisito il titolo in altre maniere, perciò sono sicuro che, se avessi tirato fuori dei documenti per dimostrare che ero legalmente nel paese o perfino diventato un cittadino italiano non avrebbe fatto differenza. Ero, e sarei sempre stato, uno straniero!
Recentemente ad una cena con degli amici italiani la questione di italianità è tornata. Quando frequentavo la scuola superiore avrei considerato quella donna seduta alla mia sinistra una donna vissuta, sofisticata e con una certa esperienza nella vita, ma oramai alla mia età una donna di ventotto anni non mi colpisce più così! Non mi ricordo di cosa stessimo parlando ma ad un certo punto le ho fatto notare che avevo vissuto in Italia molti anni più di lei. “Allora, quale di noi è più italiano?” Le ho chiesto. “E tieni presente che porto avanti una forma d’arte inventata in Italia nel ‘400 e che ho studiato con alcuni dei migliori maestri italiani. Ero fra i loro ultimi studenti, ora sono morti; perciò, sono anche un custode di un importante, anche se piuttosto rarefatta, parte della cultura italiana!” Lei era rimasta senza parole!
Mi divertiva vedere la sua difficoltà nel saper come rispondere, ma in tutta sincerità la questione è secondaria perché per me ciò che è importante è l’essere accettato. Nessun documento cambierà come mi muovo quando cammino o il mio accento quando parlo e sono queste le cose a cui la gente reagirà, non un pezzo di carta.
Si dice che gli italiani sono molto tolleranti degli stranieri, ma non è vero. Uno è tollerante di ciò che dà fastidio ma che non può cambiare. Io tollero il cane che abbaia sul balcone del vicino ma mica lo accetto! Invece, per la mia esperienza gli italiani sono molto accoglienti, e questa è una differenza molto importante. Non è bello aver un permesso di soggiorno o essere cittadino se uno viene guardato male per strada.
Visto questa caratteristica mi ricordo quanto sono rimasto sorpreso nello scoprire che non è stato sempre vero. Ma il disprezzo non era per degli stranieri ma per altri italiani. “Non si affitta a terroni.” “Meridionali e cani non possono entrare.”

Recentemente ho letto su Wikipedia che poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale le autorità di Arcachon, un villaggio costiere francese, volevano far erigere un monumento per onorare i loro cittadini che avevano partecipato nella resistenza francese. Così un comitato chiese ad uno scultore locale di presentare dei progetti, cosa che ha fatto, ma sono sembrati troppo costosi. In alternativa lo scultore ha proposto una sua statua di Ercole. Avrà pensato “ma perché no? In fondo, Ercole era stato un eroe che aveva lottato con successo contro diversi mostri.” E sul piano pratico il pezzo era già fatto perciò costava meno che fare un’opera nuova appositamente per l’occasione.
Con una cerimonia solenne, nel 1948 il monumento fu ufficialmente presentato al pubblico. E tutti ne erano contenti, no? No! Non tanto tempo dopo alcune donne hanno protestato, dicendo che il pene era troppo grande. Cercando di venire incontro alle loro pretese, le autorità hanno chiesto allo scultore di fare qualcosa! Un suo primo intervento non è stato giudicato sufficiente e le donne sono andate avanti a protestare finché lo scultore non avesse fatto un’ulteriore riduzione. Da allora la statua è stata oggetto di atti vandalici in cui qualcuno rubava il pene. Per porre fine al problema e la spesa di dover periodicamente far rifare il pezzo mancante, nel 2016 fu creato un pene staccabile. Poco prima di una cerimonia qualcuno incaricato dall’ufficio del sindaco andava ad attaccare il membro per poi, evento terminato, levarlo e riportarlo al Campidoglio.
Questa notizia mi ha lasciato sorpreso. Si trattava di provinciali sì, ma provinciali francesi e non per esempio americani e chi si immaginava che una cosa così sarebbe stata un problema per loro? E siamo onesti, il soggetto era Ercole e si sa che niente che ha da fare con Ercole è piccolo! Se il pene fosse un problema potrebbero aver scelto di mettere una statua di Giovanna d’Arco sul piedistallo. Più eroe francese di lei non era possibile. Però lei era famosa per l’aver aiutato liberare la Francia dall’occupazione inglese è in questo caso sia la Francia che l’Inghilterra erano state dalla stessa parte. Oppure un “Angelo della Vendetta”. Anche se la questione teologica, il sesso degli angeli, è complicata, bastava un po’ di drappeggio che copriva le zone strategiche. Ancora meglio, “Lo Spirito di Francia”. Una donna vestita con un costume tradizione francese che con uno sguardo indemoniato brandiva una spada. A pensarci, sarebbe stato perfetto come soggetto. Lo spirito di Francia è questa cosa nascosta che si manifesta in momenti di difficoltà per il paese e anche la resistenza francese fu una forza nascosta che si era formata per affrontare una minaccia alla Francia.
È facile ridere e prendere in giro queste persone ma Peggy Guggenheim, che certamente non era una provinciale, ha fatto più o meno la stessa cosa. Verso la fine degli anni Quaranta del secolo scorso lei ha comperato un importante palazzo a Venezia trasformandolo nella sua residenza. Una delle prime opere d’arte italiana che lei ha acquistato per il suo palazzo era una scultura di Marino Marini. Fa parte della sua serie cavaliere e cavallo.
Siccome la scultura non era ancora stata fusa, la sig.ra Guggenheim ha chiesto al sig. Marini se gentilmente avrebbe fatto il pene staccabile nella sua copia in bronzo così che secondo chi veniva in visita qualcuno poteva levarlo o no.
Molte femministe criticano noi artisti maschi per il fatto che i soggetti delle nostre opere sono spesso donne nude. Ma non è perché noi siamo dei sessisti e vogliamo sfruttare il corpo femminile esponendolo allo sguardo maschile, almeno non del tutto, è anche perché le donne non hanno un pene e questo ci semplifica di molto la nostra vita professionale!
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Fenomenologia dell’incontro, al mattino, tra fette biscottate, marmellata e caffellatte
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“Vorrei sapere per esempio perché mi hai sposata.” “Per via della colazione” spiegai. “Cercavo qualcuno con cui poter fare colazione per tutta la vita, e la mia scelta cadde su di te.”
(H. Böll, E non disse nemmeno una parola, Mondadori, Milano 1980)
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È il momento che può dare il La a tutto il resto della giornata. Di conseguenza io presto attenzione a ogni aspetto del suo allestimento. Intendo condividere con i pochi lettori interessati alcuni consigli che ritengo essenziali per un corretto svolgimento del rito Colazione.
Io prendo il caffè con il latte, volgarmente detto caffellatte. E insieme al caffellatte metto fette biscottate e marmellata. Altri hanno altre preferenze, e ognuna di queste ha sicuramente delle giuste, talvolta ottime motivazioni.
Chi sono io per mettere in dubbio una colazione con tè aromatico e risolatte, una colazione salata con uova, salumi e verdure, oppure quella con yogurt greco e un paio di cucchiaini di miele d’acacia? Lungi da me. Assolutamente niente in contrario al riguardo.
Io opto per il caffellatte, fette biscottate e marmellata. Ma attenzione: non sono gli ingredienti che da soli garantiscono il risultato ottimale. È l’attenzione ai particolari la chiave di tutto, un’attenzione continua nel tempo, quasi maniacale. Come la mia.
Dunque, cominciamo dalla marmellata. La mia lunga esperienza mi suggerisce una prima considerazione: state attenti alle marmellate casalinghe, ai barattoli regalati con orgoglio da amici – amiche esperti nel fai da te in cucina. Sia ben chiaro, non mi aspetto che roviniate amicizie ultradecennali per una marmellata auto prodotta. La marmellata va accettata con grazia, profondendosi in sinceri complimenti e gesti di autentica ammirazione.
Ma. C’è un Ma. C’è un ma soprattutto per quello che è l’oggetto del nostro conversare. La marmellata ‘casalinga’ può arrivare in barattoli con molte forme e dimensioni, ma sono soprattutto le infinite consistenze, corposità, compattezze che costituiscono una variante impazzita per la nostra idea di colazione. La marmellata potrebbe essere compatta come un mattone, e quindi difficilmente trasferibile tra barattolo e fetta biscottata, oppure molle, floscia, semiliquida, con difficoltà opposte ma risultati simili nei penosi tentativi di stenderla.
E quindi un primo, fondamentale consiglio: la marmellata (casalinga o industriale che sia) deve avere la giusta, necessaria corposità per poter essere inserita tra gli ingredienti della nostra colazione ideale.
Passiamo al secondo elemento della colazione, le fette biscottate. Le fette biscottate si trovano con grande facilità in negozi alimentari e supermercati, e qualche colazionante superficiale non è solito prestarvi la minima attenzione, afferrando la prima confezione a portata di mano, magari quella collocata proprio lì davanti, la più facile da prendere, non troppo alta e neanche troppo bassa sullo scaffale.
Grave errore. Gli studi più recenti dell’annoso problema Fette Biscottate (2022, O. Leonardi et al., An improved source for fette biscottate., 18° Congresso Nazionale SIF), hanno evidenziato i due aspetti fondamentali che vanno considerati nel momento delle scelte finali:
1 – il packaging. La confezione, l’imballaggio, ovvero l’involucro che protegge le nostre fette è di fon-da-men-ta-le importanza. Anche le migliori fette del mondo, se non sono adeguatamente protette, al minimo urto (nel nostro carrello, scaricate da un tir, mentre vengono posizionate sullo scaffale) possono danneggiarsi, spezzarsi, possono perfino sbriciolarsi. Al momento cruciale della colazione, davanti ai nostri occhi sbigottiti la confezione appena aperta potrebbe palesare solo frammenti di fette, frammenti piccoli e frammenti meno piccoli, tutti assolutamente inadeguati a sopportare la nostra delicata operazione di spalmamento.
2 – la consistenza. Robustezza e spessore della nostra fetta sono elementi altrettanto importanti, che fanno passare in secondo piano altre considerazioni (economicità, date di scadenza, lontananza del negozio da casa, ecc.). Supponiamo di avere preparato accanto al nostro caffellatte delle belle attraenti fette, scelte con la massima cura. Supponiamo di voler iniziare l’operazione di spalmamento, il cucchiaino si accosta, esercitiamo la giusta pressione, la marmellata si deposita, un ultimo movimento per collocare nell’angolo l’ultimo pezzetto e… la fetta si spezza inesorabile, definitivamente. Potrebbe perfino trattarsi di una frattura scomposta, molto scomposta, e d’un tratto vi trovate in mano, tra le dita, solo frammenti appiccicosi e decisamente sgradevoli. La giornata è rovinata.
In conclusione, massima attenzione deve essere posta nella scelta della fetta con l’esatta consistenza.
Nella seconda puntata del saggio, a breve, saranno presi in considerazione:
– la giusta tazza per una colazione ideale
– quale cucchiaino per quale marmellata
– tempi corretti di immersione della fetta nel caffellatte
– movimenti corretti della mano e precauzioni varie.

Abbiamo dovuto svuotare la casa della famiglia di origine: ciò che era appartenuto alle generazioni precedenti a quella dei miei genitori e, poi, tutti gli oggetti che avevano acquistato nostro padre e nostra madre. È stato un lavoro faticoso fisicamente ed emotivamente. Non voglio raccontare di quella fatica, ma dell’effetto che ha prodotto in me quella fatica.
Tornata a casa mia, quadri, mobili e soprammobili, libri, tutto ciò che mi ero cercata con cura, tutto ciò che rendeva quella casa la MIA casa, mi appariva improvvisamente inutile, superfluo, quasi un peso.
Gli oggetti, ovviamente, servono e, quando mi è sembrato necessario, ho continuato ad acquistarli, ma è cambiato qualcosa: li ho acquistati senza amore, senza nessun desiderio di conservarli, vedendo solo la loro effimera utilità.
Ho acquistato ancora libri, molti libri, ma non sentivo più il bisogno di posizionarli nella libreria nel giusto ordine. Una volta letti, non mi interessavo più di loro. Se prestati, non li richiedevo più indietro.
Molto tempo fa la scelta dei mobili e degli accessori della casa mi divertiva molto. Sono cresciuta in una casa piena di cose belle (l’antiquariato era una passione del nonno) e poi, a causa dei miei studi universitari, ho continuato ad osservare con passione le linee essenziali di un mobile, l’ergonomica di oggetti di uso comune, la produzione di un particolare designer. Ho cercato di accostare oggetti prestando attenzione alle forme e all’armonia dei colori.
Ed ora? Mi accorgo ancora della bellezza della sedia Wassily di Breuer che tanto tempo fa ha trovato posto nel mio soggiorno (sebbene ora sia piena solo dei panni che mio marito deve ancora stirare), ma non mi interessa più. Mi viene da pensare solo: quando sarà il momento, le mie figlie se ne liberanno facilmente?
Tutto questo, insieme al mal di schiena e alla memoria labile, è l’ennesimo sintomo della vecchiaia, suppongo.

Fra altre cose, nella mia vita sono stato anche il proprietario di una poesia. Tempo fa in un’e-mail un’amica mi aveva descritto il funerale dI sua madre in una maniera talmente “poetica” che sono rimasto colpito. Così contattai un’altra amica, una scrittrice e poetessa, mandando i particolari e chiedendo lei se, dietro pagamento, sarebbe stata disposta a scriverci una poesia. “Non una saga” dicevo, qualcosa intima di dieci, venti, trenta righe. “E non pago a parola né a riga perciò se una riga dovesse essere di una sola parola va bene, basta che fosse la parola giusta.”
Sono un artista e nella mia professione è considerato normale lavorare su commissione. Invece, era una situazione nuova per la poetessa. Chi in quest’epoca commissiona poesie? Specialmente privatamente? Non sapeva come regolarsi. C’erano anche considerazioni pratiche, quanto vale una poesia? Non c’era mica un tariffario ufficiale!
Per rendere più seria la commissione mandai un vero contratto in cui dicevo che una volta pagata, l’opera sarebbe diventata di mia proprietà, ma che autorizzavo lei sia a pubblicarla in riviste o antologie sia a leggerla in pubblico. Avevo messo anche una clausola con cui le proibivo di usarla in un qualsiasi contesto eticamente o moralmente scorretto. Conoscendola non era una mia preoccupazione, ma l’ho incluso nel contratto per dare più solennità alla transazione.
Dopo aver ricevuto l’opera e una copia del contratto firmato spedii un assegno. Nei giorni seguenti mi sono chiesto cosa voleva dire essere il proprietario di una poesia. E che cosa ne volevo fare. Passata qualche settimana, ho scritto una lettera a tutte e due in cui formalmente cedevo la proprietà della poesia all’amica che l’aveva ispirata, sempre che lei rispettasse le mie condizioni iniziali rispetto alla poetessa.
Non so come sarà la sorte di questa opera, ma mi piace sapere che l’insieme della letteratura poetica ha un piccolo pezzo in più grazie a me.

La mia infanzia si lega in modo indissolubile a nonna Giuseppina. L’ho amata tantissimo. Era la mia fatina turchina, la mia meravigliosa raccontatrice di favole, la mia dose quotidiana di coccole e tenerezze. “Befana, mia befana, con le piume e con la lana, con le scarpe color di rosa, buttami giù una buona cosa” e arrivava sempre un cioccolatino. Non ricordo di avere avuto una bambola, anche se probabilmente ne avrò avute come tutte le bambine, la mia bambola viva era lei. Passavo le ore a pettinare i suoi grossi capelli tinti mentre stava seduta in poltrona e a giocare con lei e le sue cose. Nonna mi trasportava nel mondo delle favole e una delle mie preferite, costantemente richiesta, era I musicanti di Brema, anche se i temi proposti erano numerosi e il repertorio spaziasse dal classico alle creazioni estemporanee. La mia passione per il fantastico viene da lei e dai racconti che mi faceva quando ero piccola. Nelle favole, in cui la realtà entra prepotente con la paura e il dolore, l’elemento fantastico risolve in positivo le situazioni altrimenti irrisolvibili ed è questo che mi piaceva e piace. Mi piaceva avere paura e piangere, in una sorta di catarsi in cui si sfogavano le mie ansie più nascoste, ma poi sapevo che comunque finiva tutto bene.
Nonna era nata nel 1899 a Napoli da una famiglia molto agiata, proprietaria di una delle maggiori concerie di cuoio della Campania. Dopo la Prima Guerra Mondiale l’attività venne sottoposta ad un particolare regime fiscale reputando che avesse avuto grandi profitti, e fallì. Lei, per spiegarmi quanto fossero ricchi quando era giovane, parlava di servitù, carrozze e cavalli. Mi aveva anche molto colpito il fatto che avessero un albero di mandarini giapponesi, non so perché. Un giorno mi stava raccontando del padre che aveva regalato a lei e a sua sorella Margherita una collana d’oro con una croce. Doveva essere un oggetto molto prezioso, perché mentre me la stava descrivendo, entrò nella stanza una signora che in quel periodo faceva i lavori in casa, e lei si interruppe. Quando la signora uscì, mi disse che non voleva offenderla descrivendo una ricchezza eccessiva. Questo tratto di delicatezza e attenzione alla sensibilità degli altri è tipica della mia famiglia, ed è un dono che serbo con cura.
Nonna Giuseppina aveva una carnagione chiara e occhi verdi, mentre non so il vero colore dei capelli perché li ho visti sempre tinti di uno strano marrone. Aveva il naso leggermente aquilino che si arricciava quando le veniva da ridere e una risata contagiosa. Mi ha raccontato – e ne ridemmo tanto insieme – che una volta mentre saliva la scalinata di una chiesa, per qualche ragione le venne così da ridere che si fece la pipì sotto. Nonna aveva la vita stretta, fianchi larghi e un grosso posteriore, che veniva messo in evidenza dall’abbigliamento aderente. Zoppicava perché si era rotto un femore che non era stato risistemato bene. Quando ebbe l’incidente viveva a Perugia. Cadde andando a fare la spesa e poiché in quel periodo c’erano i bombardamenti, papà e zio Giuliano avevano fatto una specie di barella con una sedia a sdraio per portarla nel rifugio quando c’era un allarme aereo.
Lei portava d’inverno e d’estate le scarpe infradito. D’inverno le portava con le calze sotto – che naturalmente tiravano lì dove passava la strisciolina di cuoio – che incuriosivano tutte le persone che incontrava, ma la cosa non la toccava più di tanto. Oltre che della sua giovinezza, raccontava anche di nonno Alfredo che quando erano fidanzati le faceva le serenate sotto la finestra. Lei doveva avere un’adorazione per nonno e quando la sorella più smaliziata le diceva “Guarda che anche Alfredo va in gabinetto e fa la cacca”, piangeva disperata. Nonno Alfredo andò in guerra e quando tornò, credo per un grande shock, aveva dimenticato tutto: leggere, scrivere e anche nonna Giuseppina. Evidentemente poi la memoria gli è tornata.
Nonna Giuseppina era simpatica, intelligente e sapeva fare tutto. Il periodo della guerra deve essere stato per lei una scuola straordinaria per riuscire a ricavare da poco o pochissimo il meglio. Era una cuoca eccezionale e a casa nostra abbiamo mangiato sempre benissimo, soprattutto pizze, pizzette e affini. Aveva delle mani grandi e rugose, con le nocche grosse, ma erano mani esperte e piene d’amore.
A nonna piaceva molto contrattare, secondo un modo di fare tipico di alcuni popoli orientali, e perciò andare a fare spese con lei era un’angoscia. Si passavano ore e ore per comprare qualsiasi cosa. Con Monica ogni tanto ricordiamo quanto tempo abbiamo passato nel negozio di stoffe di Gino, dove trascorreva intere mattinate per acquistare chissà cosa.
Amava giocare a canasta e aveva paura dei botti. Quando c’era un botto si tappava le orecchie e cominciava a canticchiare. Credo fosse una conseguenza dei bombardamenti durante a guerra. Ricordo che una volta mi venne a trovare quando abitavo a L’Aquila e andammo a fare un giro per i paesini dei dintorni. Era domenica e doveva essere qualche ricorrenza, perché in Abruzzo usa fare i botti di giorno. Ne cominciò una bella gragnola e a me veniva da ridere, ma credo che per lei fu un vero incubo. Nonna era un po’ sorda e la sera, quando ci mettevamo tutti a guardare la televisione, lei accostava la sedia vicino all’apparecchio e stava con l’orecchio attaccato allo schermo. Era aperta e per niente bacchettona e non fece una piega una volta che avemmo dei biglietti gratis per il cinema Barberini e senza saperlo incappammo in un film “sporco”.
L’ultimo ricordo che ho di lei è dell’estate del 1985. Dovevo andare in campeggio in Sardegna dove si trovavano già gli amici. Inciampai in un marciapiede e mi presi una terribile storta, così rimasi a riposo a Roma per una settimana prima di raggiungere gli altri. Nonna all’epoca non camminava quasi più e anch’io non potevo muovermi. Passammo insieme tanto tempo e ne fui felice, perché qualche mese dopo non feci in tempo ad esserle vicina quando morì. Arrivai di corsa a Roma dall’Aquila, ma non c’era già più.

Sono necessarie alcune avvertenze per coloro che cominciano a leggere questo frammento.
Non siate avventati.
Probabilmente non più di due – tre persone potrebbero trovare qualche elemento di interesse nelle righe seguenti, se noi ipotizziamo una compagine iniziale di un migliaio di lettori. Ma qui non ci sono un migliaio di lettori, mi sembra. Non ce ne sono neanche un centinaio… forse qualche decina, a voler essere parecchio ottimisti. Comunque. Poi non dite che non vi avevo avvertito.
Io sono vecchio e sto scrivendo per lettori vecchi (non vecchi lettori: continua ad affascinarmi come il semplice spostamento di un aggettivo possa cambiare il senso di una frase, una pagina, un libro intero).
Qui si parla di western, principalmente del cinema western americano che si poteva vedere in Italia, al cinema o in televisione, tra gli anni Sessanta e gli Ottanta del secolo scorso.
Mi spiego meglio: che potevo vedere IO in quel periodo.
Con mio padre c’era un appuntamento settimanale a uno dei cinema parrocchiali nelle vicinanze (per la generazione boomer, i millennials e le altre sigle Y, Z, ecc.: i cinema parrocchiali si sono estinti poco dopo l’estinzione dei dinosauri).
Sia chiaro, qui non parlo di spaghetti-western, di Giuliano Gemma, di Sergio Leone e Clint Eastwood, tantomeno di Bud Spencer e Sartana che non perdona. Non mi interessano.
I miei ricordi e i miei piaceri sono legati indissolubilmente al western VERO, quello di Ford e Peckinpah, di Zinneman e Hawks passando per Aldrich e Pollack. Ho in mente da decenni un ricco catalogo (quasi sempre in bianco e nero) di sequenze e facce memorabili, lo sguardo grintoso di Burt Lancaster in Vera Cruz, la marcia implacabile di Ernest Borgnine e Robert Ryan (come si chiamavano gli altri due?) verso il massacro finale in Il mucchio selvaggio, l’andatura improbabile e ipnotica di Yul Brinner dalla prima all’ultima inquadratura ne I magnifici sette, Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, vestito di scuro, che cammina solo per il paese in cerca d’aiuto col passo cadenzato dalla musica premio Oscar di Dimitri Tiomkin. E devo fermarmi qui, perché la semplice lista potrebbe riempire una decina di pagine.
A questo punto, caro lettore vecchio, paziente e curioso, secondo i miei calcoli dovremmo essere rimasti solo noi due, io e te. Dovresti essere abbastanza appassionato dei vecchi western, altrimenti non saresti arrivato a leggere fin qui. Oppure l’argomento non ti interessa per niente e vuoi solo vedere dove voglio andare a parare. È possibile anche questo.
A questo punto c’è una deviazione bizzarra, difficilmente comprensibile; quella che stroncherebbe anche il lettore più testardo (sei tu, mon cher), facendogli comprendere finalmente che ha perso il suo tempo continuando a leggere fin qui. Il punto fondamentale, la ragion d’essere, il fine ultimo di questo scritto è di una banalità assoluta (ti avevo avvertito all’inizio, ricordi? ma tu, niente…).
C’è – c’è stato – un fumetto western, pubblicato in Europa dal 1963 con enorme successo, che per 25 anni è riuscito a rendere attraverso disegni magistrali e sceneggiature sofisticatissime, il meglio che il western cinematografico classico mostrava sugli schermi in quegli anni. Sto parlando di Blueberry.
Cosa è Blueberry?
È una storica serie di racconti western a fumetti secondo la tradizione e lo stile franco-belga delle Bandes Dessinees (BD). Lo scrittore sceneggiatore (belga) Jean-Michel Charlier e l’artista disegnatore Jean “Moebius” Giraud (francese) hanno raccontato fino al 1989 con grande successo le avventurose storie di Michael Steven Donovan, alias Blueberry, tenente dell’esercito americano.
Dopo la morte di Charlier (1989), Blueberry ha continuato a cavalcare nel west fino al 2019, alternando di continuo disegnatori, sceneggiatori e case editrici, sempre con un enorme numero di lettori, ma perdendo completamente la vena di originalità che la coppia Charlier – Giraud aveva infuso nel fumetto.
Per chiarire meglio, tutto quello che succede a Blueberry DOPO il 1989 non merita attenzione.
Meritano un’attenzione particolare, invece, le storie pubblicate nella rivista francese Pilote dal settembre 1970 (Chihuahua Pearl) al novembre 1972 (Ballata per una bara), poi raccolte in libri dall’ Editore Dargaud e arrivate in Italia con qualche anno di ritardo. Queste storie sono il punto più alto del lavoro dei due artisti: sceneggiature estremamente sofisticate e originali, tradotte in immagini minuziose e potenti (le pianure desertiche del New Mexico disegnate da Moebius hanno lo stesso fascino di quelle riprese 40 anni dopo in Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen), eroi che nel corso della narrazione si trasformano in antieroi. Erano gli anni di Butch Cassidy, dei desperado di Peckinpah, di Pat Garrett e Billy the Kid, gli eroi al tramonto perdono progressivamente la loro innocenza e vengono messi sotto torchio da un mondo che non li accetta più. Blueberry, antieroe di carta, si aggiunge degnamente a questi personaggi cinematografici grazie a due artisti in stato di grazia che sono stati capaci di portare il medium fumetto al massimo livello delle sue capacità espressive.
Qualcuno magari potrebbe approfondire l’argomento. Se qualcuno ci fosse…
Sono arrivato alla fine e, non so perché, mi viene in mente la frase ricorrente di mia figlia quando viene a trovare il vecchio padre; apre il frigo alla ricerca di qualche ristoro e mi sgrida “Papà ma qui dentro c’è solo l’eco!”, manifestando tutto il suo sdegno per il vuoto assoluto davanti ai suoi occhi.
Ecco, sono arrivato alla fine. C’è tanto eco qui intorno.

Tempo fa la mia banca ha annunciato che potevo fare tutto quanto tramite internet e così risparmiare carta, salvare alberi e aiutare l’ambiente. Ed anche l’ente che mi fornisce gas ed elettricità, nonché la mia compagnia telefonica, dicono che posso smettere di ricevere la bolletta cartacea. Sento dire sempre più spesso, “stiamo andando verso una situazione nuova, un paperless society, ovvero una società senza carta!”
Ma volendo essere fiscale, noi non stiamo “andando” verso un paperless society, stiamo tornando ad esserne una. Da quando l’essere umano è apparso fino alla metà del ‘200 non c’era carta come l’intendiamo noi in Italia. Ad un certo punto i cinesi hanno inventato la carta e poi verso l’ottavo secolo gli arabi hanno scoperto o copiato la tecnica. Con l’aumento dei contatti fra la mondo arabo e l’Italia la gente qua si è resa conto che quella roba, la carta, che avevano quegli arabi era molto utile. Fra spionaggio industriale, mazzette e sperimentazione locale nel ‘200 anche gli italiani si sono finalmente impadroniti della tecnica creando due importanti centri per la produzione di carta, uno a Fabriano e l’altro nella zona di Amalfi. Cosa notevole è che ancora oggi si continua a produrre carta sia a Fabriano che ad Amalfi.
Certo, non è che non c’era niente su cui scrivere prima. C’era la pergamena ma il procedimento per trasformare un pezzo di pelle in un foglio su cui scrivere era laborioso e ciò rendeva il pergameno fuori dalla portata di quasi tutti. E proprio per questo diventava una cosa da snob. C’erano quelli che giuravano che non avrebbero mai letto niente scritto su carta ed altri che gridavano che non avrebbero mai permesso che una loro opere letteraria fosse scritta o stampata su una cosa così scadente come la carta!
Prima della diffusione della carta i giovani artisti si sono trovati in difficoltà perché non potevano permettersi di comperare fogli di pergamena su cui esercitarsi. Come soluzione coprivano una tavoletta di legno con uno strato di pigmento bianco mescolato con colla e disegnava su questo. Finito il disegno scartavetravano la superficie per cancellare la prova e facevano un nuovo disegno. Per questo motivo non ci sono arrivati a noi molti disegni “studenteschi” risalenti al periodo pre-carta.
In un futuro lontano quando l’idea di fare materialmente un segno su qualcosa sarà da tempo perso, chi sa, magari, qualcuno camminando in un bosco potrebbe trovare un pezzo di carboncino lasciato da un incendio. Quanto sarà sorpreso nello scoprire che, pur senza Wi-Fi, senza batterie e senza pannello solare, questa sostanza è capace di lasciare un segno?
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Sei sola in questa sala, mediti assente con aria sconsolata.
Mi avvicino a te, offrendoti una merendina presa dal distributore: ti dico “Prenda: non può stare senza mangiare”.
Mi ringrazi con un tenue sorriso e lo sguardo svuotato.
Stai pensando al tuo bambino che hai portato qui qualche giorno fa, stai pensando al suo minuscolo cuore indifeso, inadatto a proseguire la sua tenera vita. Sei in questo limbo, in cui il tempo sembra non scorrere mai.
Il tuo uomo è tornato al tuo paese perché non vi potete permettere di smettere di lavorare e vivere, e ti ha lasciato qui da sola.
Lui è tornato a lavorare mentre tu continui stancamente ad aspettare, su questa panca, che abbia termine questa triste attesa.
Spero che la forza della tua rassegnazione sia linfa per la tua vita futura, più fortunata, meno addolorata e più matura.
Il dolce ricordo del tuo piccolino ti accompagnerà nel tuo cammino, e ti migliorerà, e nel tuo futuro sarai un’adorabile mamma.
Amerai ancora e in qualche momento di felicità sulla tua guancia una inattesa lagrima righerà il volto e condividerai con il suo ricordo questo attimo.
Per ora soffro con te e mi vergogno della mia vita tranquilla.

Mi domando perché tanti adulti si straniscano nel vedere disegni o quadri che ricordano loro cosa stessero facendo la sera prima, o che avrebbero voluto aver fatto! Perché non possono fermarsi un momento e perdersi in un piacevole ricordo o fantasia invece di offendersi ed etichettare l’opera pornografica?
E perché si continua nel tentativo di dividere immagini che rappresentano esattamente lo stesso tipo di soggetto in erotiche o pornografiche? Non sarebbe più realistico dire che nessun’immagine di una qualsiasi normale attività sessuale dovrebbe essere considerata pornografia?
“Ma tutte quelle immagini esplicite?” Quando ero studente i miei insegnanti mi dicevano che l’arte doveva essere onesta e riflettere la realtà. Di solito in un incontro amoroso ci sono momenti volutamente espliciti. Ed in una tale occasione a chi verrebbe in mente di dire ad una donna di chiudere un po’ le gambe per un senso di decoro o ad un uomo di smorzare l’erezione per non sembrare scostumato?
“Ma tutte quelle opere che si appellano ai nostri istinti primitivi?” Va bene primitivi ma perché necessariamente negativi? Questi hanno aiutato la razza umana sopravvivere fino ad oggi! Ed insomma, il nostro comportamento quotidiano è così regimentato e codificato, non possiamo almeno lasciarci andare mentre facciamo l’amore ed essere anche un po’ primitivi? Ovviamente vogliamo tutti quanti essere ammirati anche per le altre nostre qualità, non solo quelle a letto, ma davvero vogliamo che la persona abbracciata al nostro corpo nudo stia pensando in quel momento al nostro formidabile intelletto?
Se in una sua opera un artista vuole raffigurare un particolare sessuale estremamente intimo, libero di farlo, solo che spesso “esplicito” si riduce ad essere una facile trovata per attirare l’attenzione, ma la sfida non è di attirare l’attenzione ma di tenerla, anche dopo che l’impatto iniziale è passato. E per fare questo ci vuole qualcosa di più che l’essere esplicito.
Certamente ho degli istinti primitivi, ma ho anche un cervello ed un cuore. Un’ opera d’arte che non coinvolge questi mi lascerà sempre deluso. Mi domanderei perché l’artista si sia fermato a metà invece di aggiungere quel qualcosa in più.
Parlando di immagini di normale attività sessuale, se qualcuno si vuole offendere non dovrebbe farlo per il soggetto in sé ma se quel soggetto è reso in maniera superficiale, banale, scontata, insulsa ed a volte tecnicamente debole, ovvero, quando l’arte erotica diventa semplicemente cattiva arte.